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Pastore Maremmano Grande Guerra nella Grande Guerra
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Alla Famiglia Simoni e in particolare al
Dr. Jacopo
per il dialogo intercorso, la fiducia,
l’invito a scrivere queste pagine.
Con stima e gratitudine.

 
  BIOGRAFIA: Sono laureata in Lingue e letterature straniere e in Filosofia e ho conseguito, in tempi più recenti, un dottorato in Letterature Comparate. Per circa trent’anni ho insegnato nella scuola dell’obbligo come docente di inglese e tedesco. Ho collaborato a progetti di ricerca con l‘università di Genova occupandomi prevalentemente, in ambito letterario, di Antropologia della letteratura e, in quello filosofico, del rapporto tra Filosofia e religione nel Cristianesimo primitivo.  
     
  Nel corso della mia vita – e lo affermo con non poco rimpianto – non ho mai allevato cani ma, con grande gioia, posso dire di esser stata, dai cani, allevata. Per quanto indaghi i ricordi più lontani, non ho memoria di tempi in cui, durante l’infanzia e l’adolescenza, i cani fossero assenti.
Devo questa passione a mio padre, convinto assertore delle virtù terapeutiche della Natura e della necessità, pedagogica ed educativa, della convivenza con gli animali.
Onnivora lettrice, fin da bambina, alimentavo la mia fantasia con le storie del selvaggio Nord americano narrate da Jack London. All’età in cui i bambini ancora credono a Babbo Natale, il desiderio espresso nella annuale ricorrente letterina era, invariabilmente, uno solo: avere un cucciolo di lupo! E puntualmente, ogni anno, il cucciolotto arrivava……e puntualmente di morbido peluche! Offesa, non degnavo di uno sguardo il delizioso giocattolo che contribuiva, invece, ad alimentare il mio personale contenzioso con il bonario personaggio natalizio.
Zanna Bianca, in casa, non arrivò mai; tuttavia qualche tempo dopo dovetti accontentarmi di Lassie: questa volta in carne ed ossa, uno stupendo esemplare di Collie scozzese, che mio padre raccolse per strada, forse abbandonato, forse fuggito, a cui diedi il nome di Donald.
Fu il “mio” primo cane.
Mio padre aveva sviluppato una vera passione per lo Riesenschnauzer; ne avemmo più d’uno; ma in famiglia vigeva una regola ferrea: per ogni cane di razza, altrettanti ne andavano salvati dai canili o da condizioni disagiate. Questo fece sì, in breve, che nell’ampio uliveto circostante la casa dei miei genitori, accanto ai tenebrosi Schnauzer giganti, all’elegante Collie, agli arruffati Pastori Bergamaschi autoctoni dell’alta val Seriana (luogo d’origine della mia nonna materna) si aggirasse una nutrita corte di “mezzi”: mezzi-cani da caccia, mezzi-cani da guardia, mezzi-cani da compagnia, etc… corredata da una altrettanto numerosa comunità felina, rigorosamente meticcia e anch’essa frutto di salvataggi più o meno rocamboleschi e disparate adozioni.
In età adulta, per molto tempo, mi dovetti privare dell’insostituibile presenza dei cani: condizioni di lavoro e varie vicissitudini mi avrebbero costretto a trascinarli con me in luoghi di residenza sempre diversi e, soprattutto, a confinarli, per buona parte del giorno, nella solitudine di giardini angusti o di terrazzi di città.
Ho sempre trovato ben poco condivisibile l’idea che un cane, qualsiasi cane (e in realtà qualsiasi animale) possa essere relegato in una città al fine esclusivo di soddisfare il nostro “bisogno” di natura; una creatura vivente non è un’immagine o un oggetto che ci ricorda “il profumo di cose perdute”, bensì è un essere che abbisogna di condividere la sua vita con la nostra, soprattutto nei momenti in cui la natura la andiamo a cercare, per viverla in pienezza e autenticità e non solo come surrogato (magari veicolato da un bel cagnone), senza muoverci dagli spazi ristretti e affollati delle nostre città, ormai non più a misura d’uomo e figuriamoci quindi se a misura di animale!!!!!
Non potrei mai acconsentire, personalmente, a trattamenti del genere.
Per quanto mi riguarda, all’epoca ritrovavo gli amati animali solo quando facevo visita ai miei genitori, ma nella quotidianità mi mancavano molto.
In tempi più recenti, grazie all’allentamento dei ritmi lavorativi, con mio marito Marco riprendemmo a frequentare la montagna e proprio in quel ritrovato ambiente di libertà e natura non tardò a rifar capolino l’antica, e mai sopita, passione cinofila: decidemmo di prendere un cane.
Optammo per un’adozione, pensando che un meticcio di taglia media meglio si sarebbe adattato anche alla permanenza in città, nella quale, nostro malgrado, continuavamo a risiedere per buona parte dell’anno.
Al nostro nuovo compagno\a avremmo però potuto, rispetto agli anni passati, garantire la nostra presenza costante, molto tempo da trascorrere insieme nella condivisione di spazi e ambienti diversi.
Fu così che arrivò Nina, da Amatrice: una tenera cucciolina bianca e nera, nata, ci dissero, da un probabile incrocio tra un Pastore maremmano-abruzzese e un Border Collie.
Fin da subito si rivelò una creatura intelligentissima dal carattere dominante; ricordo il veterinario che, ad una delle prime visite, la definì “un cane assertivo”. Nina non tardò a sviluppare precocemente le attitudini di conduzione del gregge proprie dei cani “toccatori”: il problema era che, identificandoci come suoi “animali”, mordicchiava senza sosta le nostre caviglie, sempre vivacissima e irruenta.
Cominciammo a prendere in considerazione la possibilità di un addestramento, tuttavia mi convinsi che ciò di cui Nina necessitava non era tanto un addestratore cinofilo (al quale, dubito, mai si sarebbe “piegata”) quanto, piuttosto, un altro cane che bilanciasse il suo carattere e le sue attitudini.
Mi rendevo conto di quanto l’ipotesi potesse apparire azzardata e inusuale ma volevo tentare e, in tal modo, si fece quindi strada l’idea di avere un secondo cane.
Questa volta però passai in rassegna le diverse possibili razze, valutandone, per quel che sapevo, i tratti caratteriali che più mi sembravano adattabili al mio scopo. La scelta infine si appuntò sui cani da pastore: offrivano, a mio avviso, garanzie di stabilità, attaccamento, fedeltà e, alla fine, riconobbi che fin da bambina, erano stati quelli con cui avevo sviluppato una innata e profonda empatia.
Iniziai a studiare e un giorno acquistai, presso uno dei numerosi banchi di libri usati che per antica tradizione da sempre pullulano a Genova, una edizione De Vecchi su “I pastori italiani”, opera del Prof. Cavalchini; ne fui attratta poiché trattava diffusamente del Cane da Pastore Bergamasco, che già ben conoscevo per diretta esperienza.
La vera rivelazione del libro fu però la seconda parte: una approfondita indagine sul Cane da Pastore Maremmano-Abruzzese. Per me un vero e proprio “colpo di fulmine”!
In quell’occasione e in quelle pagine, incontrai per la prima volta il Prof. Franco Simoni ed ebbi notizia dell’antico allevamento Jacopone da Todi: lessi con avidità ed entusiasmo i capitoli relativi al grande Pastore bianco, iniziai a visionare i siti internet (nonostante la mia scarsa attitudine all’informatica) e ad acquisire una buona mole di informazioni.
Gli scritti del Prof. Simoni costituirono però i primi e solidi fondamenti della mia nuova passione: dal sito dello stesso allevamento appresi la storia di quella razza antichissima, profondamente “italiana” e da considerarsi, a buona ragione, vero e proprio patrimonio antropico e culturale del nostro territorio. Non facevo fatica ad immaginare i vecchi legionari, segnati nel corpo e nell’anima dalla loro durissima esistenza all’insegna della devozione al grande Impero, ritiratisi nell’allora selvaggia e incontaminata campagna appenninica, a trascorrere i propri ultimi anni di tranquillità e riposo, ripagati dalla compagnia del paziente e fedele cane bianco al loro fianco.
Mi affascinavano le dinamiche della transumanza e ciò che ne imparavo dalle appassionate descrizioni del Professore; mi commuovevano le vicende di quei pastori che, grati per le cure ricevute, gli facevano dono di quanto avevano di più prezioso: i loro cani.
Visionai tutti i video e i repertori fotografici dei campioni più belli; bonariamente invidio tutt’ora la Prof.ssa Simonetta, la bella signora dai modi aristocratici, che non conosco di persona ma della cui passione, ereditata dal padre, mi illudo di poter comprendere molto: l’ho vista nelle riprese, davanti alla telecamera, addolcire il viso, vagamente austero, nel sorriso rivolto agli immacolati giganti che la circondano.
- Sì, sono la tua padrona e la tua amica – le si percepisce dire, rivolta ai cani che, accanto a lei, festosi, sembrano capire.
Parlai delle mie intenzioni ad amici e conoscenti, tutti però tentarono di dissuadermi.
In Liguria e in Piemonte il PMA è gravato dalla pessima fama di cane mordace e aggressivo. Da qualche tempo le Regioni sovvenzionano l’acquisizione di cani da guardiania nell’ambito delle recenti politiche ambientali anti-lupo: sempre più spesso allevatori amatoriali in buona fede, ma purtroppo anche un buon numero di loschi figuri senza scrupoli, fiutando l’occasione di facili guadagni, propongono a destra e a manca l’acquisto di quelli che in realtà sono non altro che cani bianchi di grande mole. In virtù anche di una diffusa ignoranza relativa alle caratteristiche della razza maremmano-abruzzese (mi è capitato di incontrare un convinto proprietario di un rarissimo “maremmano nero”….!!!!!) si finisce con il diffondere indiscriminatamente sul territorio un alto numero di ibridi pericolosi per l’uomo e per nulla adatti alla difesa del gregge.
Un giorno, chiacchierando davanti ad un caffè, con Ilaria, sorella del nostro veterinario e carissima amica, venni a conoscenza dell’appassionato interesse, suo e dell’intera sua famiglia, per il PMA; al momento ne aveva due: Bernie, un grande e superbo maschio la cui mole era direttamente proporzionale alla dolcezza del carattere, e Brina, una piccola femmina salvata in extremis da un canile-lager. Il Dr. Claudio, infatti, non di rado veniva chiamato a collaborare con le forze dell’ordine per risolvere situazioni del genere. Brina aveva la leishmania, probabilmente contratta da cucciola, in ogni caso sapientemente curata e accudita con amore da anni riusciva a sopravvivere in buone condizioni; tuttavia, poco tempo dopo quel nostro colloquio, la sua patologia si aggravò e in breve Brina morì.
Bernie, il maschio, sembrava non trovar pace: Ilaria mi riferì che rifiutava il cibo e, apatico e disinteressato a tutto, lasciava scivolare via nell’inedia intere giornate. Trascorsero poche settimane, rividi Ilaria con il volto segnato dalla tristezza: “E’ morto anche Bernie, deve essere successo di notte”, mi disse trattenendo le lacrime. Quella stessa mattina lo avevano trovato senza vita, rintanato nell’usuale riparo notturno, il suo grande cuore non aveva retto alla perdita della compagna.
In quell’istante decisi che un Pastore Maremmano-Abruzzese, prima o poi, sarebbe entrato nella mia vita.
Esitavo a fare il “grande passo”, mi tratteneva ancora la necessità di abitare in città per alcuni periodi dell’anno; avevo ben assimilato gli insegnamenti del Prof. Simoni in merito alle esigenze di ambienti consoni ad una vita all’aperto che contraddistingueva la razza, e non ero disposta a costringere quel tipo di cane in un appartamento, seppur dotato di ampi spazi esterni.
Con il trascorrere dei mesi e, per nostra fortuna, l’aumentata possibilità di più lunghe permanenze in montagna, cominciammo a pensare all’acquisto di una casa, nella previsione di trasferirci definitivamente.
L’autunno di quello stesso anno il destino ci condusse in centro Italia: un breve viaggio, anche per visitare i luoghi d’origine di Nina e rivedere la volontaria che ce l’aveva donata.
Soggiornammo, sulla via del rientro, in un’accogliente struttura presso un’azienda agricola; mi avvidi subito della presenza di due grossi PMA e dei loro due cuccioli, ultimi rimasti di un parto di nove. Gli adulti infatti erano in realtà due sorelle, il maschio ci dissero essere al lavoro in collina con il gregge; le femmine presenti erano invece confinate all’interno di una grande area recintata, destinate alla guardia dei mezzi meccanici e delle attrezzature dell’azienda. Dei due cuccioli il titolare si dichiarò intenzionato a tenere il maschio, restava disponibile la piccola femmina, per la quale, essendo l’ultima (e intuendo i nostri desideri) ci disse che per la cessione avrebbe richiesto solo un contributo per le spese veterinarie.
La sera stessa valutammo la situazione: fummo dell’idea che, in fondo, quell’hangar di cemento, pieno di trattori, cingolati e attrezzi non era poi così tanto più naturale ed ecologico del nostro grande terrazzo sui tetti di Genova.
Arrivati con uno, l’indomani ripartimmo con due cani.
La piccola rimase quieta per tutto il lungo viaggio, rannicchiata nel trasportino che già era servito per Nina; era così magra e sparuta che, più di una volta, pensai non si trattasse di un vero PMA, aveva anche un occhio albino che le conferiva un’espressione dolcissima; non mi passò mai per la mente di considerarlo un difetto, anzi sarebbe stato il suo tratto distintivo e nella malaugurata evenienza di uno smarrimento (o di un rapimento….fatto non infrequente) ci avrebbe aiutato a segnalarla e ritrovarla.
Non aveva ancora nemmeno un nome: era appena trascorsa l’estate in cui la Grecia aveva visto seriamente compromessa la possibilità di rimanere all’interno dell’Unione europea, in segno di solidarietà con quel popolo e quella cultura tanto amata decidemmo di chiamarla Zoe, “vita”, suonava bene augurale e, inoltre, era anche il nome della nonna di mio marito.
Arrivati a destinazione, l’invitammo con dolcezza ad abbandonare la “tana” dell’auto; per alcuni istanti, lei, immobile, ci rivolse uno sguardo che non dimenticheremo mai: era il tacito accordo di un patto di amore e responsabilità.
-Avrò cura di voi – dicevano i suoi occhi – ma voi dovrete averla di me, nella lealtà e nel rispetto, siamo responsabili gli uni degli altri –
Fu in quel preciso momento che pensai di aver compreso l’essenza caratteriale della razza e l’origine più profonda della mia infatuazione: in fondo finiamo con l’amare tutto ciò in cui, inconsapevolmente, riflettiamo noi stessi, cerchiamo nell’altro ciò che ci distingue e al contempo ci accomuna e con Zoe sono certa di condividere un radicato senso di lealtà e fedeltà nei rapporti interpersonali, nell’assoluto rispetto della dignità reciproca, entrambe siamo tuttavia poco propense a tollerare il tradimento di questo amore e questa fiducia. Violare il consolidato patto di amicizia e solidarietà che da subito intercorre tra un PMA e il suo compagno umano, rimane offesa insanabile, una macchia indelebile in un rapporto, altrimenti senza eguali.
Nina, che all’epoca aveva circa 18 mesi, si rivelò, come avevo sperato, una perfetta sorella maggiore; accudiva Zoe come una sua cucciola, istruendola innatamente nelle gerarchie di branco attraverso il gioco e la gestione dei pasti e ponendo, in tal modo, le basi di un legame che ancora oggi, a distanza di anni, appare indissolubile.
In breve Zoe si adattò alla sua nuova vita: liberata dai parassiti e nutrita adeguatamente, iniziò a prendere peso e ad assumere l’aspetto del grande cane da pastore di cui mi ero innamorata.
Cominciarono le nevicate autunnali e ricordo con gioia la felicità, sua e nostra, di quelle escursioni costellate di corse pazze e di giochi.
In casa, tuttavia, i primi giorni non furono facili: al calar della sera diventava inquieta e nel momento in cui ci apprestavamo alla notte, una volta spente tutte le luci, iniziava a gironzolare agitata per le stanze; sulle prime credetti volesse dormire all’esterno ma, invitata ad uscire, ostinatamente rifiutava. Nina, per parte sua, sdraiata sul tappeto o accomodata sul divano, la ignorava.
Una sera decisi di collocare la gabbia in cui Zoe aveva compiuto il suo primo viaggio a fianco del letto e ve la feci entrare attirandola con del cibo; la cuccia così improvvisata aveva il lato superiore apribile: mentre lei, suo malgrado, si rassegnava a quella momentanea prigionia, io spensi la luce a, al buio, sporgendomi oltre la sponda del letto, infilai il braccio nell’apertura, cominciando ad accarezzarla lievemente; in pochi minuti lei si acquietò e, per godere al meglio di quel mio massaggio, si rivoltò sulla schiena: ancora adesso mi pare di avvertire, nel palmo della mia mano, il battito del suo piccolo cuore allentarsi e via via scivolare nel sonno.
Suppongo, in quelle notti, di essermi comprata una discreta periartrite alla spalla, ma questo rimane un dettaglio…..di poca importanza!
In capo a poche settimane Zoe imparò a dormire sotto il letto, che tutt’ora sceglie sempre e ovunque, quando possibile, a suo luogo d’elezione per il riposo, a volte invece, rimane affiancata alla porta di ingresso svolgendo in tal modo anche l’insostituibile funzione di para spifferi gelati, soprattutto durante la stagione invernale.
Nel corso di questi sei anni, da parte di entrambe, si è andato a concretizzare un rapporto di completa fiducia reciproca che credo ormai inscalfibile.
Ne ebbi conferma quando Zoe era ancora una cucciolona e per una sciocchezza dovemmo recarci dal più vicino veterinario che lei, ovviamente, non conosceva.
Una volta compresa la destinazione del breve tragitto, si era rintanata terrorizzata nel fondo dell’auto, irremovibile dalla sua postazione e a nulla valeva la presenza rincuorante di Nina, sempre al suo fianco, e le nostre amichevoli incitazioni.
Decisi di rientrare in macchina da sola, lei era scossa dai tremiti ed evitava il mio sguardo: le sedetti accanto, sfidando il sordo brontolio, spesso preludio a un ringhio più aggressivo, con cui è solita esprimere il suo disaccordo. La accarezzai, mantenendomi il più calma e rilassata possibile e parlandole a voce bassissima; ad un certo punto, con un tono leggermente più assertivo, le dissi: “ora fidati di me, coraggio”, agganciai il guinzaglio, aprì la portiera e scesi, rimanendo ferma davanti a lei. Zoe cercò i miei occhi e mi fissò per qualche istante come a trovare conferma della mia promessa, poi uscì dall’auto e docile mi seguì sul lato opposto della strada verso lo studio veterinario.
Attualmente, da circa due anni, non abitiamo più a Genova; liberi dagli impegni di lavoro ci dividiamo tra le Alpi franco-piemontesi, in cui trascorriamo l’estate e buona parte dell’autunno, e la riviera ligure dove viviamo, non distanti dal mare, nella casa di campagna che fu dei miei bisnonni.
Zoe e Nina, felici, hanno a disposizione un vasto intero terreno in cui scorrazzare libere come puledri; Zoe in particolare ama le burrascose giornate di pioggia: rimane per ore in mezzo al prato a sorvegliare gli alberi squassati dal vento e spesso rientra in casa solo a sera; intrisa d’acqua, il suo mantello bagnato, asciugandosi, si gonfia, riccio e candido come una schiuma, donandole le sembianze di un vero e proprio “cane-pecora”, come, additandola alla mamma, ebbe a definirla un bimbo, incontrato durante una nostra escursione in montagna.
Non solo nell’aspetto, ma anche nelle preferenze alimentari, Zoe denota la sua origine pastorale: ciò che più la gratifica è la consueta zuppa di uova, pane secco, latte e ricotta di capra che puntualmente, ogni martedì sera, riceve nel suo menù personalizzato.
Per non dire poi, di come è compresa, seppur nel contesto privo di lupi, dal suo ruolo di cane da guardiania: ammette gli estranei solo previo il nostro consenso, li accoglie, sulle prime affettuosamente bonaria, per poi disinteressarsene completamente, fatto salvo però il sorvegliarli costantemente a distanza. Tollera gli altri cani all’esterno, ma non consente loro di entrare in casa; chi soffre maggiormente di tali “divieti” è Pavel, un giovane e allegro Golden Retriever che, quando passa a trovarci, viene regolarmente confinato alla soglia della porta finestra della cucina: lui rimane deluso, con l’aria dell’innamorato respinto, mugolando sommessamente, mentre Zoe, come una sfinge accucciata ai miei piedi, lo ignora o ne tiene a bada ogni minima avance, emettendo il suo caratteristico gutturale brontolio di tuono lontano.
Pure noi, alla sera, subiamo le sue strette imposizioni comportamentali, diventando tutti gli attori di una comica messa in scena. D’abitudine trascorriamo le ore dopo cena in salotto, Zoe resta strategicamente sdraiata sul tappeto, in una postazione che le consente di controllare tutti i membri della famiglia e ascoltare i concerti di Radio3, di solito sempre accesa nella stanza accanto, è un cane musicofilo e gode moltissimo della musica classica.
Dal quel momento nessuno di noi, dal suo punto di vista, dovrebbe più muoversi; immagino ci consideri come pecore a lei affidate e finalmente rientrate al sicuro all’ovile da sorvegliare! Il problema sorge quando arriva l’ora di andare a dormire: il primo (Nina compresa) che tenta di alzarsi dalla sua posizione invariabilmente subisce la sfuriata del canis pastoralis, il quale, in una pantomima degna del grande teatro, simula balzando in piedi e digrignando i denti, una feroce “sgridata”. In quel momento io allora mi alzo, con aria severa, restando ferma a pochi centimetri dal suo muso, sdegnata le dico, chiosando la Prof.ssa Simonetta: “Come? a me? che sono la tua padrona, la tua amica?????” al contempo lei inizia a scodinzolare e muta il ringhio in un suo modo particolare di mostrare i denti e “ridere” come a dire che, in fondo, stava solo scherzando.
Nonostante la tanto enfatizzata “autonomia caratteriale” del PMA Zoe ed io viviamo in una simbiosi, credo inscindibile. Non riesco nemmeno a pensare il momento in cui lei non potrebbe più essere con me e sono certa che le nostre vite rimarranno coese in un rapporto di amore infinito, lealtà, fiducia e fedeltà reciproche anche nel “mondo che verrà”, perdurando oltre e al di là del tempo e dello spazio delle nostre singole esistenze su questa Terra.
Conservo, e alimento, un mio unico personale sogno nel cassetto: allietare gli anni, spero tanti, dell’età più avanzata di Zoe (e della mia) con ancora la presenza di un cucciolo di Pastore Maremmano-Abruzzese, mi rendo conto, in questo istante, scrivendo, che, a parte Donald, il collie scozzese, tutti gli altri miei cani sono stati femmine, forse per questo vorrei crescere e condividere la mia vita con un maschio dei grandi cani bianchi dal grande cuore.
Come a tutti i sogni ho già dato un nome: Victor.
A ricordo di colui che mi ha permesso di vivere gli anni più belli dell’infanzia in una numerosa famiglia animale e mi ha insegnato due tra i valori più alti: l’amore per la Natura e il rispetto per la Vita, sempre, in ogni sua forma.
Vittorio, era mio padre.
 
  Emanuela Miconi Mazzardis